Certame 2017 - UNITRE - Carmagnola

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Certame 2017

Attività extra

1° Premio: TUTTI I COLORI DELLA MIA FOLLIA (di Antonella Operti )

La casa, bellissima, seminascosta da un grande parco, era visibile dalla strada provinciale, che ogni giorno percorrevo in autobus per andare a scuola. Ne ero affascinata e anche turbata, perchè la paragonavo inconsciamente all'appartamento delle case popolari dove abitavo.
Mai avrei potuto immaginare che in quelle stanze mi sarei ritrovata molti anni dopo, rinchiusa. Forse in virtù dell'ampio giardino o del posto celato alla vista della strada e della gente normale, oppure solo perchè il comune aveva deciso di farne una casa di cura per malattie mentali, quelle mura ora rappresentavano la mia dimora, il mio rifugio e forse la mia cura.
Il giardino è la cosa che mi piace di più qui e meno male che sono impazzita ad aprile. Credo che aprile sia il mese  migliore per diventare matti, perchè la primavera ti aiuta a sopravvivere, il sole ti scalda e ti illumina la vita e questo giardino ti riempie gli occhi di colori.
Io amo i colori.
I colori mi fanno proprio impazzire...e per me non è solo un modo di dire.
Li classifico, li divido, li accosto, li raggruppo, li chiamo per nome e loro mi parlano.
Loro dominano la mia esistenza.

Oggi io sono verde e per questo non devo stare vicino al viola e al blu. Devo mangiare solo arancione e non andare nel bagno con le piastrelle bianche. Oggi sono verde perchè arrivano mio marito e mia figlia a trovarmi e il verde è il colore della vita. Il verde mi rilassa e mi fa pensare all'erba appena tagliata, alle foglie nuove sugli alberi in primavera, al muschio che ricopre il muro che divide questo giardino dal resto del mondo.
Ci sono giorni in cui metto in perfetto ordine cromatico tutti questi colori nella mia testa, nulla mi sfugge. Tutto deve essere al suo posto. Quelli sono i giorni in cui dentro vado a pezzi e i pezzi sono grigi e non combaciano mai fra di loro. Ma se dentro predomina il grigio allora fuori deve essere tutto colorato e in sintonia. Le voci dei colori che ho nella testa, in quei giorni mi parlano. Sono crudeli. Hanno il colore dell'acciaio, del cielo in tempesta, della lama affilata di un coltello, del mio cervello che si doveva spappolare sul marciapiede il giorno in cui mi sono buttata giù dalla finestra di casa.
Quel giorno le voci erano insistenti. I colori, troppo vivaci, mi aggredivano da tutte le parti, non riuscivo a trovare pace. Quel giorno avevo tutti i colori attorno a me, si aggrappavano al mio collo, mi parlavano tutti insieme, non mi lasciavano respirare, tramavano contro di me. Non ho trovato altro scampo che gettarmi giù dalla finestra, ma  anche lì mi hanno raggiunto e non mi hanno lasciata più.
Questo posto dovrebbe cercare di mettere a tacere questo brusio incessante che ho nella testa.
Ma anche qui le voci non stanno zitte.
Qui però non hanno potere.
Qui mi sento al sicuro.
Come quando ero nel minuscolo appartamento popolare dove vivevo con la mia famiglia e le voci già si facevano sentire, ma parlavano piano e non avevano nessuna forza. Mia madre friggeva pranzo e cena con la sua determinazione calabra. Friggeva tutto: peperoni, melanzane, pasta, dolci e io e mio fratello ci lamentavamo che avremmo puzzato di fritto tutto il giorno e a scuola ci avrebbero preso in giro, per poi finire sempre a fare il bis di quei piatti unti e caldi e buoni con mia madre, rigorosamente vestita di nero, che rideva e ignorando le nostre proteste, continuava a friggere.
Ecco perchè il nero è il colore che mi avvolge quando ho paura. Il nero mi protegge. Il nero è il limbo, il non colore, il non luogo. Non c'è niente nel nero eppure è così spesso, così pieno, coltre pesante che mi copre e mi isola da tutti gli altri colori. E' il seno caldo di mia madre, è il buio della notte dove sogno un'altra vita.
Qui parlo con psicologi e psichiatri, faccio terapia di gruppo. Non ho domande e non cerco risposte, voglio solo stare bene. Voglio che le voci nella mia testa stiano zitte, perchè quando parlano mi fanno stare male, il cuore diventa pesante e tutto diventa ossessivamente rosso.
La pazzia è rossa. Il rosso del sangue che schizza da un'arteria recisa. Il rosso che ti sorprende alle spalle e che ti paralizza la mente e i movimenti dalla paura. Il rosso degli occhi di mio padre quando beve troppo e dei miei quando piango senza motivo e senza fine, solo per sentire i miei singhiozzi e ricordarmi così che sono viva.
Si, perchè se soffro sono viva e la sofferenza ha il colore bianco. Un bianco trasparente, lucido, ci passi le unghie sopra e senti uno stridio che ti entra nel cervello, ti spacca le orecchie e ti accappona la pelle.

Sono arrivati mio marito e mia figlia. Anche se ho pregato mio marito di non portarla che ha solo nove anni, lui insite nel dire che deve sapere la verità. E ora sono qui, davanti a lei che guarda tutta questa gente strana e mi vergogno.
La vergogna è gialla. Gialla come il colorito della mia pelle da quando sono qui.
Il giallo non è un colore caldo, è un colore freddo. Mi cola in gola come ghiaccio fuso anestetizzandomi le corde vocali e io non so più parlare. Mi dispiace, non riesco ad essere una buona madre, vorrei dirle, ma tutto quello che posso fare è guardarla e cercare di sorriderle. Lei parla, parla, parla e parla ancora. Riempie il vuoto che il giallo lascia attorno a me.
Mio marito intanto mi guarda fisso, anche lui muto come me.
I suoi occhi sono marroni.
Il marrone è il colore della schifezza, dell'immondizia, del liquame, di ciò che è intoccabile. Nel suo sguardo non c'è pena nè commiserazione. Gli faccio proprio schifo. Non sa cosa farsene di una moglie pazza. Forse ha già pronta una sostituta più adeguata di me a fare da moglie e da madre.
Aspetterà che io stia meglio, che io ritorni a casa e appena la sua coscienza glielo permetterà mi darà la mazzata che in realtà sto aspettando già da un pò di tempo: mi lascerà.
Le mazzate portano con loro il colore beige.
Il beige non è un colore. E' un caos di colori mescolati. Non è giallo, non è verde, non è marrone, non è bianco. E' il colore della gonna che indossavo al funerale di mia madre. E' il colore delle piastrelle del bagno pubblico dove hanno trovato mio fratello morto.
E' un colore inutile, triste, vomitevole, come la mia vita prima di finire qui. Come quando tornerò a casa e mio marito potrà lasciarmi senza tanti sensi di colpa.
Mia figlia invece ha gli occhi dello stesso colore dei miei: azzurro polvere. E' un azzurro che diventa grigio quando il sole scompare, ma poi se ti giri vedi che sta arrivando il sereno e allora i suoi occhi si fanno più grandi e limpidi e allora in quell'azzurro ti puoi specchiare. Con quegli occhi guarda tutto il mondo e io non vorrei mai che ci siano ombre ad oscurare il suo futuro. Faccio pena come madre, ma sono l'unica madre che le è toccata in sorte e farò di tutto per proteggerla. Non permetterò alle voci di parlarmi di lei.
Lei è rosa. Non il rosa confetto, il rosa stucchevole degli abiti per bambine, nè il rosa industriale delle pubblicità. Lei è il rosa dei petali di questi fiori che riempiono il giardino. Un rosa screziato, impreciso, pieno di mille gradazioni. E' il colore dell'amore: imperfetto e per questo unico. Fatto di sfumature che solo chi ama può cogliere.
Mio marito non ha sfumature nè imperfezioni.
Mio marito sta parlando e io non lo ascolto. Non mi interessano le sue parole. All'improvviso l'arancione mi esplode dentro e si propaga in tutto il mio corpo. Colore del sole, l'arancione mi scalda davanti a questo uomo glaciale, che snocciola parole asettiche e tecniche come in un ordine di servizio. L' arancione mi veste di fuoco, vorrei toccare quest'uomo e avvolgerlo nelle mie fiamme, arderlo vivo per farne rimanere solo un mucchietto di cenere che spazzerei poi con noncuranza giù nel tombino.

A volte mi chiedo cosa ci faccio con tutti questi colori che ho nella testa.
A volte ci gioco.
A volte ci parlo.
A volte mi danno i super poteri.
A volte mi imprigionano.
A volte mi proteggono.
A volte tento di dargli un senso.
Ma più spesso, mi arrendo al loro volere e li lascio parlare e agire al posto mio.
Così diventa tutto più facile.
Alla fine credo sia stato semplice andare in mille piccoli pezzi. Ora il difficile è andare a raccoglierli, tutti questi pezzi, l'uno dopo l'altro, e capire il disegno che alla fine ne verrà fuori.

Prima di andare via mia figlia ha dipinto un fiore. Me lo porge con un sorriso.
E' un bellissimo fiore con tanti petali, tutti blu.
Il blu è il mio colore preferito.
Ma no! Che peccato! Oggi sono vestita di verde!
Oggi non sono proprio adeguata al blu!
Oggi il blu non va per niente bene per me!
Mi dispiace piccola mia, oggi la mamma non può toccare il tuo disegno. Domani ti prometto che la mamma sarà blu, tutti i blu che conosci: blu cobalto, blu di prussia, blu oltremare, indaco, blu ceruleo e molti altri ancora, e tutti questi blu ci faranno volare in alto e da lì guarderemo questo scintillante giardino e tu potrai disegnare tutti i fiori che vorrai, con tutti i colori che immaginerai e sarà tutto variopinto e i colori ci vorranno bene, non si vendicheranno nè ci diranno cose cattive. Non bisogna mai trascurare i colori e neanche sottovalutarli, altrimenti finisci come me, in manicomio.

Non le ho detto niente di tutto questo. In realtà, mi sono limitata a sorriderle...chissà forse sto già guarendo oppure sto solo imparando a fingere meglio.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          
2° premio: IL PAVONE (di Angelo Tortone)

La casa, bellissima e misteriosa, seminascosta da un grande parco, era visibile dalla strada provinciale, che ogni giorno percorrevo in autobus per andare a scuola. Ne ero affascinato, incuriosito ed anche turbato, perché la paragonavo inconsciamente all’appartamentino delle case popolari, dove abitavo. Figlio di un povero camionista di Bari vecchia, mai avrei potuto immaginare che qualcuno potesse esserne il proprietario, e che potesse viverci, e godere di quella frescura, così  carica di profumi, così gonfia di tanta vegetazione apparentemente non terrestre, in perfetta comunione con se stesso, con la natura e con l’universo intero. Mi sbagliavo, ovviamente.
Ma andiamo con ordine.
Di quella casa, se possiamo chiamare casa una villa che si sviluppava su quattro piani circondati da finestre coronate da architravi di un brillante color bianco, nel generale rosso pallido dominante, non ne sapevo nulla. Nessuno, nella mia famiglia e fra i miei amici, sembrava saperne più di me. Era lì, da tempo immemore, punto e basta. Esisteva quasi per scherno alla nostra indigenza, quasi per derisione a quella realtà rattoppata che era tutto il nostro mondo, svuotato da ogni aspirazione che non fosse quella di arrivare sazi o non troppo affamati il giorno dopo. Era lì. Piantata come una montagna. Silenziosa. Quasi occultata alla vista da quel parco traboccante di pini, palme e cycas. Il suo torrino belvedere, avvolto da arcate, alcune cieche, altre impreziosite da vetrate imperlate di ragnatele, rappresentava il culmine di questa egemonia di sfarzo. A memoria d’uomo non si era mai visto nessuno salire quei monumentali scaloni di marmo, nessuno aveva aperto il portone di ferro battuto dell’entrata al parco, nessuno aveva camminato dentro il vialetto. Tutto sembrava cristallizzato in un tempo anteriore, molto anteriore e molto più antico della nostra stessa paura. L’insieme di questa mescolanza di pietra e verde e sentimenti contrastanti lo chiamavamo “il castello”, e noi ragazzini passavamo i pomeriggi a immaginarci cose terrificanti e a farci domande ancora più terrificanti, ridendo della nostra stessa insolente fantasia. Sin da fine febbraio, quando il tepore del sole lo permetteva e i cappotti diventavano più pesanti e fastidiosi, un bel gruppetto di noi mocciosi andava a giocare davanti al perimetro di muro che dava sulla provinciale, o, molto più semplicemente, ce ne stavamo con il naso ficcato fra le sbarre della cancellata, gli occhi sgranati e roteanti, a cogliere il minimo indizio di movimento, fosse anche solo un passero o una foglia calpestata da un topo. Nel trascorrere degli anni il gruppo si era assottigliato, anche perché il gioco, se di gioco si trattava, non presentava molte varianti; anche l’habitat che “studiavamo” non era cambiato di molto. La solita parata di alberi maestosi, il solito vialetto perso nelle ombre del sottobosco. La solita idea, inchiodata dentro i nostri giovani cervelli in tumulto, che quello era un posto di fantasmi cattivi, di fantasmi introversi che non amavano la compagnia degli esseri umani, men che meno quella di ragazzini troppo curiosi.
Arrivammo così alla maledetta sera della scommessa. Michele, Lorenzo, Stefano ed io; gli ultimi sopravvissuti del primo gruppo storico, i soli rimasti dopo le annuali diaspore. Nessuno di noi quattro si considerava un vigliacco; proprio per questo la scommessa, quella di penetrare dentro il parco per inoltrarci all’interno delle stanze, si era srotolata poco a poco fra noi, come uno di quegli enormi pitoni che vedevamo nei vecchi film di Tarzan, e si era attaccata ai nostri pensieri, e non si era più mossa da lì, stritolando qualsiasi parvenza di buon senso avessimo potuto ancora racchiudere nel cervello. Sicuri che il velo di mistero di quelle mura era durato anche troppo, e che niente e nessuno poteva impedirci di strapparlo quella notte stessa, quella notte ancora tiepida di sole, quel luglio propizio alle avventure memorabili.
Sono passati trentaquattro anni da quella scommessa, ma è come se i ricordi fossero di pochi minuti fa. La verità è che non sono ancora riuscito a distaccarmi da quella notte, e neppure dalle notti successive. E’ un grumo avviluppato di nero che ha ammainato ogni sole, dentro la mia anima, prima morbida e valicabile da qualsiasi emozione, ora impenetrabile e ruvida come una mano piena di calli. La scala che abbiamo utilizzato per scavalcare il muretto ci ha costretto a salire dentro un inammissibile inferno sconosciuto, in quel mondo di bestie di cui neppure mio padre ha mai saputo, o, più probabilmente,  voluto dir nulla. Siamo entrati in quella casa come vomitati da folate di vento fresco. Assurdamente eccitati, inconcepibilmente giovani. Credendo di entrare in un gigantesco carillon, pieno di cose mai viste, pieno di ombre luminose, e di mobili degni di sovrani, e di quadri carichi di tempo, e di saloni zeppi di sentori di avorio e oro, fluttuanti nella loro stessa aura di inestimabile, di preziosa, di raffinata solennità. Non mi venivano le parole allora, e non mi vengono ora, perché in fondo sono rimasto quello stesso ragazzino emarginato che sognava una vita di riscatto da una vita di stenti; sono quello stesso ragazzino di allora, ombra veloce fra le ombre chine e radenti dei compagni, che si è fermato un istante di troppo a contemplare rapito la luce giocare con i suoi istinti più bassi, lamelle di luce opalescente sopra un piccolo soprammobile di porcellana colorata, un pavone grande quanto basta per stare perfettamente racchiuso nella mia mano di allora, la coda aperta a ventaglio, la sua luce piena e morbida e vergine dentro le mie pupille sbarrate. E poi la bramosia, che sento crescere dentro di me, potente. Che inghiotte, frenetica e muta, tutti i miei pensieri, e scarta quelli che urlano “no, non farlo”. E quel fascio - soprattutto quel fascio - di luce delicata, di luce vellutata verde, di luce smorzata blu, che si irradia dagli occhi delle penne, e si mescola al mio respiro mozzato dall’agitazione, dal desiderio, dall’affanno, dal desiderio, dalla paura, dal desiderio. Dal desiderio. Desiderio di possesso. Ricordo ancora il pavone, ormai stretto fra le mie mani, mentre attorno a me si allungano le ombre dei miei amici in fuga, illuminate da un secondo fascio di luce più fredda, quello di una torcia elettrica tenuta in mano da una indistinta figura umana, ai margini esterni del giardino. E un abbaiare convulso, prima lontano poi sempre più vicino, ripetuto all’infinito. Che sento ancora adesso, trentaquattro anni dopo. Che sento ancora adesso, trentaquattro estati dopo. Che sento ancora adesso.
E poi il silenzio, il silenzio che esce e rientra da me, anch’esso eterno, eterno suono di rimorso, eterna richiesta di perdono, austero e triste, dilatato dentro il mio pensiero come una chiesa vuota, non illuminata da candele. Stratificazioni di memoria che sfuggono impazzite al mio controllo, plateau di dolore dopo un terremoto, detriti di dolore che mi chiudono il petto, e che presi uno a uno compongono l’inconsolabile mosaico di tormento che fa di me ciò che sono. O non sono. Che fa di me colui che cerca di dare un ordine agli echi profondi e sconfinati della memoria, da cui scaturiscono come da una nebbia gelida e nauseabonda i volti inesorabilmente accusatori di Michele, Lorenzo, Stefano.      
L’ultima visione che ho dei miei amici, è quella delle loro schiene disallineate in una fuga disperata, in mezzo ai pini del parco. Poi più niente. Non ho più rivisto nessuno. Quella notte e la notte successiva semplicemente passate in fuga, la fuga di noi quattro dispersi e divisi fra centro, periferia e spiaggia. Nessuno ha più fatto ritorno a casa. Uno a uno, sono stati presi tutti. Uno a uno sono stati ammazzati tutti. Cancellati da questa vita. Immagino siano morti con lento, ripetuto abbandono. Le torture dolcemente soppesate sui loro corpi, in modo che avessero tempo di urlare, urlare il nome di chi aveva mancato di rispetto, di chi aveva fatto la cazzata di rubare quel fottuto pavone di porcellana. Nei libri e sui quotidiani li si trova, talvolta, sotto la definizione di morti di “lupara bianca”, quelli spariti non si sa in quale angolo d’inferno, privati persino della dignità di essere cenere di qualcosa, cenere di qualcuno… Così sono spariti Michele, Lorenzo e Stefano, i miei ultimi amici.
E così sono sparito anch’io. Ma non come spariscono i morti, non così tanto profondamente, non così tanto. Sono sparito anch’io ma non ricordo come. Non ho potuto chiederlo ad altri, perché nessuno parla più con me, perché ormai anch’io non provoco attorno a me che una inestinguibile inquietudine.
Sono ritornato indietro, solo qualche giorno dopo, lì, fra i cespugli del parco, dove la mia fuga era iniziata. La casa, con i suoi maledetti specchietti per allodole, con i suoi diabolici orpelli, con la sua marmorea smania di  grandezza, era ancora là, dove l’aveva lasciata la nostra stupida curiosità. Intatta. Dorata. Rabbrividente. Ci sono di nuovo entrato, senza neppure aver bisogno di aprire la porta. Dentro, celato dietro gli altri mille odori della città, il solito fetore di chiuso, di antico, di stantio. Camminavo lentamente, il ticchettio di mille orologi dentro le orecchie, il respiro grave delle pareti attorno a me. Camminavo, passo dopo passo, sul palchetto, senza fare quasi rumore, come in lenta dissolvenza, con i piedi come avvolti da ali di farfalla. Trattenendo in me il respiro di tutto il mondo. Trattenendo in me l’ira di tutto il mondo. Sempre al buio, sono andato sicuro verso la cucina, lì dove sapevo esserci le manopole. Le ho aperte. Senza la minima esitazione, sentendo poco a poco le mie narici riempirsi di gas, ondate di gas invisibile, che salivano roteando, strisciando verso il soffitto, e poi di stanza in stanza, a ritroso, a saturarle di quell’odore così nitido, l’odore della fine del mondo. Fatto questo, sono andato a sedermi accanto alla finestra della porta d’ingresso, ed ho atteso, per ore e ore, in compagnia degli insetti che cadevano a decine sul pavimento, agonizzanti. Elitre imbrattate di luna, ai miei piedi. Così, per ore e ore, il mio io incastonato in un tempo molto simile a ciò che dura per sempre, gli occhi inchiodati sulle ombre scure del parco.
Poi, improvviso, il lampo accecante, il boato, la casa sollevata dalle sue stesse fondamenta. Quando uno di loro ha aperto la porta, e a tentoni ha cercato l’interruttore della luce. Uno, due, tre tentativi. Il quarto cavaliere dell’Apocalisse, il suo dito indice.
Mi sono alzato in piedi, in mezzo alla polvere e alle macerie, e ai loro corpi, cataste di corpi a brandelli. Ho cercato il volto sfigurato del boss. L’esplosione ne aveva scagliata la testa sopra ciò che rimaneva di una credenza - stile Luigi XIV, credo -. La pelle del volto era già fredda, intrecciata indissolubilmente al suo epilogo interrotto, quasi pronta per il processo della sua fine organica in questa parte di realtà, e per questo non mi ha sorriso, non mi ha sorriso affatto, quando gli ho premuto sul volto il pavone, lasciandolo in bilico sulle tempie. Me ne sono andato, a passi lenti, involucro invisibile, inalterato, spaventoso, verso il mio destino in penombra.  
Oggi è una bella giornata, per passeggiare. Ogni tanto i ricordi prendono il sopravvento, ma li ricaccio indietro. In attesa di un qualcosa che possa cambiare, che possa cambiarmi, ma non ho ancora capito quando, e neppure come. Il sole non può più scaldarmi, di questo sono sicuro, dopo trentaquattro anni. Davanti a me una mamma, con il suo bambino, protetto, custodito dentro la carrozzina. Mi avvicino a lei, lentamente, metro dopo metro. Cammina quieta, fiduciosa, serena. Mi avvicino ancora di più a lei, sono davanti a lei, la sfioro, entro dentro di lei, passo in mezzo a lei, in mezzo al suo bambino. Li attraverso, rasentando il profumo di glicine delle loro anime ancora intessute di vita. Oltrepasso la loro ingenuità. Poi mi volto, e sorrido, guardandole allontanarsi da me, inconsapevoli.
                                                                                                                                                                           

3° premio: MA CHE STRANA AMICIZIA (di Annamaria Raspolini)

La casa, bellissima e misteriosa, seminascosta da un grande parco, era visibile dalla strada provinciale, che ogni giorno percorrevo in autobus per andare a scuola. Ne ero affascinato e anche turbato, perché la paragonavo inconsciamente all’appartamentino delle case popolari dove abitavo. Mai avrei potuto immaginare che … Questo pensiero affiora spesso nei miei ricordi, specialmente quando ho bisogno di un poco di relax , magari dopo una giornata di duro lavoro. Ma da allora erano trascorse molte primavere e quello che era capitato nella mia vita aveva in effetti qualcosa di romanzesco. Ma andiamo per ordine. Da quando sbirciavo con sana invidia la villa dei miei sogni erano passati anni: con tanti sacrifici da parte dei miei genitori, avevo continuato gli studi e mi ero laureato;  in attesa del “posto della vita” lavoravo in un ufficio nel centro cittadino dove praticamente facevo il factotum a tempo pieno, ma ben felice di avere uno stipendio a fine mese (non tutti i miei amici avevano avuto quella fortuna).  Ma il tragitto per rincasare era sempre lo stesso e la bella villa colpiva ancora la mia attenzione.  Spesso mi recavo nell’ufficio postale più vicino all’azienda per fare raccomandate e versamenti vari. Cercavo di essere sempre decoroso  nel modo di vestire, anche se magari mi sarei sentito più a mio agio con  jeans e t-shirt. E fu fuori da quell’ufficio postale che la incontrai. Cercava di sollevare il carrello della spesa che si era incastrato su di un piccolo gradino che delimitava la soglia e non ci riusciva. Alta e magra, capelli candidi e un bel cipiglio di vecchietta indomita. Mi venne spontaneo accorrere per aiutarla ma lei mi guardò male: “Giovanotto!” – mi aggredì – “Lei si sbaglia di grosso. Non sono così sprovveduta come forse immaginava. Sono anziana ma non cretina; ma guardatelo, è  anche vestito al meglio, proprio per sembrare una persona perbene e magari pensa che ho appena ritirato la pensione...”  Io ero esterrefatto: la gente si voltava incuriosita e mi guardava  con sospetto. Ero sudato e la rabbia mi impediva di parlare. Per fortuna intervenne il direttore delle poste che mi conosceva da tempo e chiarì l’equivoco. Allora la signora si mostrò  desolata e non la finiva più di chiedermi scusa. Sorrido ancora al ricordo di quella scena surreale, che però diede inizio ad una grande e strana amicizia nonostante  la grande differenza di età. Dopo quell’episodio lei non sapeva più cosa fare per farsi perdonare; io la rassicuravo, avevo già dimenticato tutto – ed era vero – ma lei non  si dava pace. Volle sapere dove lavoravo e spesso mi aspettava, premurosa come una nonna, nonostante il caratterino che a volte usciva fuori di donna  d’altri tempi, orgogliosa ed indipendente. In breve volle sapere tutto di me: gli parlai della mia modesta vita con i genitori, delle delusioni avute e anche dei miei sogni. Mi venne spontaneo farlo, perché mi ascoltava seria e interessata e, poco alla volta, mi affezionai sinceramente a quella signora che a volta sembrava  quasi bisbetica ma  sapeva essere  amabile e comprensiva. A sua volta (durante i pranzetti che insistette per volermi preparare di tanto in tanto) la signora Germana incominciò a parlarmi di sé: era vedova da tanto tempo ed aveva avuto una vita bellissima, nonostante la mancanza di figli. Lei e suo marito si amavano davvero: avevano condiviso tutto sempre insieme, viaggiato molto. Ma un brutto giorno, improvvisamente, lui morì e la grande felicità cessò di colpo. Si intristì raccontandomi questo,  ma poi se ne uscì con queste parole: “Però devi  sapere la verità,  Gianfranco... io non sono quella che sembro”. Mi feci pensieroso: cosa stava per dirmi di così terribile la brava vecchietta? Ella vide la mia espressione preoccupata e sorrise rassicurante: “Ma cosa vai a pensare… non ho nessun delitto da confessarti. Il fatto è che tu mi vedi in questo appartamento: è stata una mia scelta voler vivere qui in centro città, maturata dopo la morte del mio amato Gerardo. Con lui ho trascorso più di trent’anni in una bellissima casa circondata da un grande parco. Sai, per tanto tempo avevamo pensato di riempirla di frugoletti scatenati ma non sempre la vita ci riserva tutto quello che si desidera e poi noi avevamo già molto: eravamo abbastanza ricchi e soprattutto ci amavamo.  Dopo la sua morte non ho più voluto vivere in quel luogo ed ho preso questo alloggio che per me è fin troppo grande, come puoi vedere. Ma la villa è ancora di mia proprietà, sai? L’ho data in affitto a dei conoscenti, brave persone, che ne hanno fatto un, come si dice, bed and breakfast. E’ riservato a poche persone selezionate e non compare nemmeno sulle pagine gialle; vengono famigliole straniere, solitamente francesi, per visitare la nostra città e con il passa parola mandano anche amici e conoscenti…”. Io la guardavo in religioso silenzio; si era rianimata e sembrava molto contenta della cosa, tanto che aggiunse, con fare furbesco: “Sai che una volta all’anno vi faccio ritorno nella mia bella casa? Durante l’estate faccio le valigie, dico ai miei vicini che vado al mare per un mese, prendo un taxi e mi faccio portare a Villa Germana, dove i gestori della pensione (preferisco chiamarla così) mi aspettano. Mi sono riservata quella che era allora la mia camera da letto con bagno e per un bel mesetto faccio proprio la signora. Mi servono di tutto punto, passo le giornate nel parco a passeggiare o a leggere e riesco anche ad abbronzarmi; al mio ritorno nel condominio in città, mi fanno anche i complimenti per la tintarella…”. Mi guardò sorniona, ed era proprio soddisfatta. La mia amica era proprio fuori della norma, dovevo ammetterlo, era una continua sorpresa. La nostra strana amicizia durò oltre due anni. A casa i miei genitori erano convinti che in città avessi la ragazza e, specialmente mamma, faceva di tutto per avere notizie o confidenze; a me divertiva l’idea che in effetti c’era una persona che attendeva le mie visite, il fatto era che si trattava di una simpatica ultraottantenne… Lei mi chiedeva spesso cosa desiderassi fare in futuro. Le idee non le avevo ancora chiare ma le avevo confidato che, essendomi laureato a pieni voti in scienze sociali, non mi sarebbe dispiaciuto poter lavorare in qualche istituto assistenziale, tipo casa famiglia; avere la possibilità di poter aiutare persone in difficoltà era da sempre stato il mio sogno, ma i tempi erano quelli che erano e mi potevo già ritenere fortunato ad avere un lavoro, anche se non era propriamente quello a cui aspiravo. Questo avevo confidato alla signora Germana  che, bontà sua, si preoccupava per me.
Da tempo mi ero accorto che non stava bene. Era ancora spiritosa ma appariva sempre più affaticata e mi ci volle del tempo per convincerla e sottoporsi ad esami clinici. Quando si decise a farli la situazione apparve subito grave. La accompagnai in una clinica privata che conosceva; venne sottoposta ad ulteriori controlli ma il referto fu terribile: un male subdolo e repentino non le dava speranza e lei volle subito saperlo. Per fortuna non soffriva e questo mi dava conforto perché francamente questo precipitare degli eventi mi aveva frastornato e addolorato. Gli chiesi dei suoi parenti, dovevano sapere:  aveva soltanto due nipoti da parte del marito ma: “Non credere, Gianfranco, che ne saranno sconvolti. Vengono a farmi visita due volte l’anno per mezz’ora. Più che altro vengono ad informarsi  sui conti che ho in banca e sui quali hanno già  da tempo messo la firma, in caso…”. La voce le si incrinò ma subito sorrise: “Si riterranno davvero fortunati, tra poco”. Io ormai passavo quasi tutto il tempo libero accanto a lei: due infermiere si alternavano ad assisterla, notte e giorno, mentre le forze la abbandonavano. Ma lo spirito battagliero era rimasto e a volte sembrava recuperare energie. Una sera che ero passato dopo il lavoro, la trovai vestita di tutto punto e pronta per uscire; mi prese per un braccio, impaziente: “Fammi il favore, devo andare da un mio carissimo amico. E non fare quella faccia, sto meglio, credimi; gli ho telefonato e mi sta già aspettando, andiamo”. Non avevo scelta, aveva  già deciso tutto; arrivammo in poco tempo davanti al portone che mi aveva indicato e non volle essere accompagnata: “Per l’ultimo saluto ad un caro amico non voglio estranei tra i piedi”, scherzò e scomparve nell’ascensore. Furono due lunghissime ore di angosciosa attesa  che ingannai sentendo la radio in macchina. All’improvviso la sentii che bussava sul vetro del finestrino: sembrava soddisfatta e la riaccompagnai a casa, dove una solerte infermiera si prese subito cura di lei. Per qualche giorno sembrò migliorare, ma una mattina mi chiamarono per darmi la notizia che purtroppo attendevo da tempo: durante la notte si era spenta. Avevo già deciso che non avrei partecipato al funerale: c’erano i nipoti, le conoscenze varie ed io dovevo farmi da parte. La mia cara amica non c’era più e tristemente ripresi la solita vita. Al mattino in ufficio, alla sera ritorno in periferia nell’appartamentino dei miei  genitori, che nulla mi chiedevano, ma certo immaginavano la rottura del mio rapporto con quella “ragazza di città”.
Era trascorso un mese dal funerale quando mia madre una sera mi sventagliò una lettera intestata a mio nome: il mittente era un certo notaio Speranza. Non lo avevo mai sentito nominare ma l’indirizzo mi ricordò la sera in cui avevo accompagnato la signora Germana a salutare “il suo grande amico”.  Lessi che di lì ad una settimana, ad un’ora già fissata,  sarei dovuto andare nel suo studio in occasione della lettura del testamento della defunta. Dire che restai basito è un eufemismo: cosa c’entravo io con gli affari della signora che mi aveva regalato la sua amicizia? Ci pensai per giorni, oltre tutto dovevo tenere a bada la curiosità dei miei che continuavano a farmi domande. Ma venne quel giorno e non mi restò che presentarmi allo studio. C’erano anche i nipoti della scomparsa, che mi guardarono subito con sospetto. Poi arrivò il notaio e dopo i saluti di circostanza iniziò la lettura delle ultime volontà  della mia amica Germana. Tutto regolare per la prima parte: i nipoti avevano ereditato tutte le sostanze della zia ossia conti bancari, postali, cassette di sicurezza nonché l’appartamento dove viveva abitualmente. Io intanto continuavo a chiedermi cosa ci facessi in quello studio. La risposta non tardò a venire: a me spettava “ la villa con parco ecc. ecc. sita nella strada tale al numero tale ecc. ecc.”. Da restare paralizzati dallo stupore! Ma anche i nipoti non erano meno sbalorditi, anzi, accennarono ad una reazione non simpatica nei miei confronti. Ma intervenne deciso il notaio: “Non sognatevi di adire a vie legali nei confronti di questo signore; è tutto regolare e voi sapete che vostra zia era una mia grande amica. Era suo desiderio lasciare la villa a chi per oltre due anni le ha fatto compagnia, ha mitigato i tanti disagi della senilità e che c’era sempre quando ha avuto delle difficoltà. E voi in quei momenti dove eravate? Parlo anche per lei che non vi ha mai chiesto nulla e vi ha lasciato molto…”. Più tardi il notaio mi ragguagliò su quella che sarebbe divenuta la  mia proprietà. E  così scoprii che avevo ereditato niente di meno che la famosa casa che fin da ragazzo avevo guardato con desiderio.
Molto tempo dopo, quando entrai da proprietario in quel paradiso, ebbi un’altra sorpresa. In quella che era stata la camera da letto della signora Germana, in un cassettone, trovai una sua lettera che mi spiegava il vero motivo di quell’eredità: mi pregava di far diventare la sua una casa famiglia per ragazze lasciate sole nel momento più difficile per una donna. Già vedeva dei bambini giocare nel  giardino e mi dava tutte le istruzioni per il futuro. Attualmente la bella villa era ancora affittata a quegli amici del bed and breakfast  ma il contratto sarebbe scaduto tra due anni e nel frattempo avrei potuto anche usufruire dell’affitto che in futuro mi sarebbe servito. Mi pregava anche di rivolgermi per ogni dubbio al suo amico notaio e soprattutto di far venire i miei genitori ad abitare con me; tanto, mi scrisse, di posto ce ne è per tutti. E mi ringraziava ancora per il tempo che le avevo dedicato. In ultimo mi chiedeva ancora scusa per il piccolo incidente che ci aveva fatti conoscere. Che dire di più? Quanto ho raccontato può sembrare una favola moderna  ma vi garantisco che è stato scritto all’ombra di un tiglio profumato che si erge maestoso nel parco di una bella casa che tanti anni fa ammiravo, passando in autobus per andare a scuola. E intanto vedo una ragazza nel viale che porta il suo bimbo sul passeggino: mi sorridono e mi salutano con la mano …




 
 
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